Negli anni novanta, l'Italia è entrata in un processo di transizione che è ormai divenuto oggetto di un'abbondante letteratura nazionale e straniera. Piuttosto ovviamente, la natura di tale transizione è ben diversa da quelle dei paesi postcomunisti e, come ha opportunamente sottolineato Pasquino (1994; 1995), poco comparabile con altri precedenti storici. Anche la Francia, che questo autore considera il miglior termine di confronto, lo è in realtà assai relativamente sotto una varietà di punti di vista. Mentre infatti la Quarta e, per lungo tempo, anche la Quinta Repubblica sono rimasti classici casi di pluralismo polarizzato (Sartori 1982, 256–262), l'Italia degli anni novanta non può più essere definita tale, e proprio per questo (o, almeno, anche per questo) si è avviata alla presente transizione. Come è noto, inoltre, le riforme golliste investirono essenzialmente le principali istituzioni politiche della repubblica, ma lasciarono inalterati il subsistema burocratico e la struttura (centralizzata) dello Stato, che sono, invece, componenti tutt'altro che secondarie per comprendere il decorso e gli eventuali sbocchi della crisi italiana. Ma, infine, tale crisi si intreccia anche al declino dello Stato sociale e interventista, coinvolgendo la ridefinizione dei confini fra politica ed economia e il ruolo delle grandi organizzazioni degli interessi, sindacati in testa. Come dire che, oltre al sistema politico-istituzionale ed alla pubblica amministrazione, le relazioni industriali e i loro attori pubblici e privati rappresentano una terza dimensione di cambiamento, che altrove è stata poco importante (Francia), ovvero incomparabilmente diversa (regimi postcomunisti).