Secondo Arend Lijphart, la democrazia consociativa è caratterizzata essenzialmente da una prioritaria cooperazione fra le élites di subculture separate e mutualmente ostili, posta in essere «con il deliberato intento di controbilanciare le tendenze disgreganti insite nei sistemi frammentati». Si tratta, evidentemente, di una definizione che «privilegia gli elementi volontaristici, intenzionali, razionali e contrattuali» del modello consociativo, in armonia con la convinzione che esso può venire adottato con «un atto costruttivo e creativo di libera volontà». Tuttavia, questa convinzione non è condivisa da tutti, o almeno non è per tutti il miglior punto di partenza in termini di metodo. Cosí, per esempio, Val Lorwin ha osservato che «incorporando l'effettiva cooperazione fra le élites nella definizione» si rischia di essere indotti a trascurare «l'esame delle condizioni che favoriscono, ovvero inibiscono o ostacolano, tale cooperazione». E, in effetti, proprio questo è uno dei limiti dell'approccio di Lijphart, il quale dedica bensí ampio spazio alle condizioni storiche, strutturali e culturali della democrazia consociativa; ma lo fa senza il necessario rigore, senza giustificare adeguatamente la scelta di condizioni pur plausibili e mettendole insieme a molte altre, che sono invece dubbie o controproducenti. Comunque, questa difficoltà non è insuperabile perchè a un vaglio piú accurato della letteratura rilevante è possibile scartare quel che va scartato e determinare senza ambiguità che alla riuscita dell'im-presa consociativa in paesi come l'Austria, l'Olanda e il Belgio hanno concorso: 1) la stabilità fra le subculture che le élites rappresentano, e 2) un elevato potere delle élites sul proprio seguito, assicurato dall'inquadramento di questo entro strutture organizzative capillarmente diffuse e altamente centralizzate e da una cultura politica deferente ovvero politicamente acquie-scente.