I partiti politici detengono il triste primato di essere le istituzioni pubbliche in cui i giovani italiani nutrono minor fiducia – meno che nella burocrazia statale, nel governo, nella magistratura, nelle forze di polizia, nell'esercito, nella Chiesa, nei sindacati, nelle banche, nei giornali e nelle televisioni (Buzzi et al. 1997, 382). Per quanto aggravatosi in tempi recenti, questo discredito ha radici lontane e trova espressione in un distacco crescente, dagli anni settanta in poi, dei giovani dalla vita dei partiti. Generazione dopo generazione, stando alle survey condotte negli ultimi cinque lustri, i cittadini dai 18 ai 25 anni che prendono parte regolarmente alle attività di qualche organizzazione politica sono passati dal 7,3% del 1970, al 6,2% del 1983, al 4,1% del 1987, al 2,7% del 1992 e del 19% (Tullio-Altan e Marradi 1976, 472; Cavalli e de Lillo 1993, 286; Buzzi et al. 1997, 419). Più precisamente, gli individui tra i 20 e i 24 anni che negli ultimi sei mesi hanno svolto «attività gratuita per un partito» ammontano nel 1994 ad un misero 1,8% – meno di un terzo della quota di attivisti di partito che si ritrova nella popolazione fra i 35 e i 44 anni d'età (Istat 1996, 143). Dati di fonte partitica, del resto, confermano il quadro: a cavallo fra il 1995 e il 1996 le organizzazioni giovanili dei partiti contavano 204.000 membri (Turi 1997, 126) – ossia, il 2% della popolazione tra i 19 e 29 anni (Istat 1995, 102).