Quando la diffusione di un termine si fa tanto ampia da permetterne un uso indiscriminato, sia nel linguaggio comune che, e soprattutto, in quello scientifico, è lecito sospettare che essa rifletta una vera e propria moda intellettuale, o poco più. Questo è certamente il caso della «globalizzazione». Nell'ultimo decennio, economisti, storici, sociologi e politologi hanno fatto a gara, a più riprese, e con grande dovizia di argomenti, a offrire una lettura «globalizzata» dei fenomeni di loro rispettiva competenza, spesso sottolineando un insieme di elementi di drastica rottura con un passato relativamente recente e insistendo, di conseguenza, su tutta una serie di novità epocali che la globalizzazione comporterebbe. Secondo molti, infatti, la globalizzazione ha stravolto i tradizionali punti di riferimento e reso obsoleti gli strumenti analitici in nostro possesso; è necessario dunque elaborarne di nuovi, pena l'impossibilità di rendere conto delle più importanti dinamiche politiche, economiche e sociali odierne. A queste opinioni si contrappongono quelle di coloro che, pur riconoscendo l'importanza di molte tendenze «globalizzanti» in atto, ne limitano più o meno decisamente la portata, sia da una prospettiva storica (abbiamo già assistito a processi simili) che da una analitica (concetti e teorie di cui già disponiamo possono essere di grande utilità anche nell'esame dei fenomeni detti «globali»).